Archivio mensile: gennaio 2020

Mamma, papà sono arrabbiato! I capricci e la rabbia del bambino, dispetto o opportunità di crescita?

Il capriccio può essere considerato una modalità che il bambino utilizza per comunicare un disagio in diverse situazioni, poiché è ancora immaturo per poter gestire lo stress e le emozioni in maniera più adeguata, dovrà impararlo grazie al modo in cui i genitori gestiranno i capricci e li trasformeranno in occasioni di apprendimento.

Cosa vuole comunicare il bambino? I capricci si svolgono sempre su due piani, quello esplicito che fa riferimento alla specifica situazione e che di solito coinvolge motivazioni irrilevanti per entrambi (es. il bambino fa i capricci perché vuole il gelato e la mamma non glielo vuole comprare) ed il piano implicito, quello più importante, di cui di solito le parti coinvolte sono poco consapevoli, forse il bambino un po’ di più.

Quali sono i più frequenti aspetti in gioco, sul piano implicito, visti dal punto di vista di un bambino?

  • Ho bisogno di un segno concreto del tuo amore per me, perché non sono sicuro che tu (in questo momento, o in questo periodo, o in ogni momento) mi ami”. Questo bisogno di rassicurazione sull’essere amato può dipendere da moltissime circostanze. Potrebbe essere che il genitore in quel periodo sia davvero distratto da preoccupazioni e problemi “da grandi”, che lo allontanano mentalmente e magari anche fisicamente dal bambino. Può essere che il bambino dubiti dell’amore dei genitori per lui, perché è in arrivo (o è già arrivato) un fratellino o una sorellina. “Che bisogno avevano di farne un altro? Forse li ho delusi”.Il bambino potrebbe essere angosciato perché ha sentito che mamma e papà intendono separarsi, o ha visto che realmente si sono separati. “Sento te come distratto, addolorato, depresso, preoccupato, fragile, bisognoso, confuso, entusiasta per qualcosa d’altro, ecc., per cui temo (o percepisco) di avere perduto il tuo amore, e cerco una rassicurazione”.

  • Ho bisogno di sapere quanto potere ho io, sia in assoluto sia nella relazione con te”. Il potere è quella funzione relazionale che fa sì che un’altra persona faccia qualche cosa che altrimenti non farebbe. “Ho bisogno di mettere me alla prova”. Posso anche avere bisogno di verificare quanto tu accetti che anche io possa avere un po’ di potere su di te, e non solo tu su di me. Posso, infatti, essere angosciato sia se ho troppo potere sia se ne ho troppo poco. Ho bisogno di verificare quanto potere ho, da un lato per non sentirmi in balia soltanto di me stesso (cioè: non affidato a nessuno), e dall’altro lato per non sentirmi schiacciato dalla prepotenza degli altri, te compreso.

  • Ti segnalo che non stai gestendo adeguatamente il tuo potere con me, mentre io ho bisogno che tu lo eserciti adeguatamente, in modo più chiaro, coerente ed esplicito, così che io possa orientarmi meglio e trovare così sicurezza”. In questo caso, col capriccio il bambino provoca l’adulto, per poter avere la percezione di essere importante per lui. Gli segnala che ha bisogno che nelle interazioni con lui vengano attivate funzioni “paterne”, benevoli ma ferme, che sanciscano i limiti e le regole. Ha bisogno, in sostanza, che l’adulto gli dica “No”, con fermezza e con chiarezza. Spesso, quella di ricevere regole ben definite e vincolanti è un’esigenza di percepire attorno a sé un mondo in cui ci si possa muovere con una sufficiente sicurezza.

  • Ho bisogno di sapere se la persona cui sono affidato è sufficientemente stabile e forte”. Poche cose sono così angoscianti per un bambino come il constatare che l’adulto cui è affidato è una specie di fragile marionetta in suo potere. L’insicurezza devastante che ne deriva talvolta viene dal bambino affrontata assumendo lui la parte di quello “forte”, che impone il proprio volere. Ma, inevitabilmente, lo farà come può farlo un bambino, senza gran che di esperienza di vita.

  • Ho bisogno di sapere che non sono solo affidato a te, ma che ho anche un certo grado di autonomia da te”. Quando un bambino sente preclusa ogni possibilità di riconoscimento delle sue proprie competenze e del suo proprio realistico grado di autonomia, è possibile che, prima di disperarsi del tutto, cerchi di “forzare” l’adulto con dei capricci.

  • Ho bisogno di percepire me come soggetto della mia vita e ti segnalo la necessità che tu te ne accorga e che mi riconosca in questo mio bisogno”. Il bambino ha bisogno che sia sistematicamente riconosciuto dagli adulti che si occupano di lui il valore del suo sentire, del suo pensare, del suo desiderare e del suo volere.

I capricci rappresentano l’unica espressione del bambino che deve comunicare un disagio e dovrà con il tempo e l’aiuto degli adulti imparare a tollerare le frustrazioni, comunicare i suoi bisogni e malesseri in maniera adeguata e saper gestire la rabbia e lo stress.

Se verranno gestiti all’interno di un clima autorevole ma accogliente i capricci potranno rappresentare una lezione ed una occasione per imparare insieme a gestire meglio le emozioni.

I capricci portano i genitori a sperimentare alti livelli di stress e frustrazione che potrebbero scatenare reazioni eccessive che diventerebbero diseducative. Occorre quindi, fare una distinzione tra “cervello razionale” e “cervello emotivo”.

Quando siamo calmi il nostro “cervello razionale” ci permette di ragionare in modo lucido. Riusciamo a riflettere sulle cose e ci comportiamo in modo costruttivo. Quando, invece, ci sentiamo sotto pressione il nostro corpo e il nostro cervello reagiscono di conseguenza: i muscoli si irrigidiscono, il battito cardiaco aumenta e il cervello entra in stato di panico. Il nostro “cervello emotivo” prende il sopravvento, non riusciamo più a pensare in modo lucido e reagiamo in modo emotivo. Di fronte ad un bambino che urla e piange ogni adulto si chiede quale sia la modalità più adeguata per gestire il capriccio e sono frequenti e del tutto normali sentimenti come la frustrazione, la confusione, sconforto e rassegnazione. Una volta adottata una strategia ci si chiede se è quella giusta oppure no e nella maggior parte dei casi i capricci continuano, essendo una normale manifestazione del disagio in età infantile. Il capriccio è da sempre considerato un modo inadeguato ed eccessivo del bambino di voler imporre all’adulto la propria volontà, con un comportamento che mette a dura prova anche il genitore più paziente. La situazione diventa ancora più pesante se questo avviene in luogo pubblico o davanti a persone da cui ci si sente giudicati.

Gli stati d’animo che queste reazioni suscitano nell’adulto sono in genere rabbia, frustrazione, senso di impotenza e di fallimento, scoraggiamento, imbarazzo.. Per far fronte a tali sentimenti spiacevoli si tende ad avere due atteggiamenti opposti:

  • eccessiva rigidità, che comporta reazioni di rabbia come urlare e punire il bambino. Queste risposte tendono però a porre fine all’ascolto empatico dell’altro e a spostare l’asse della relazione su un gioco di potere. La conseguenza sarà frustrazione e risentimento nel piccolo, che sfogherà quando e come meglio può.
  • lassismo e permissività, che prevedono l’accontentare ogni desiderio del bambino purché non pianga e non manifesti sentimenti “negativi” faticosi da sostenere. In questo modo il bambino capisce che questa modalità “funziona” per ottenere quello che vuole e spinge sempre oltre le richieste. I comportamenti che il genitore spera di evitare vengono così consolidati e si consegna al bambino un carico che non è in grado di sostenere: la responsabilità delle decisioni, che almeno fino ai 6-7 anni ha ancora bisogno che qualcun altro prenda per lui.

Cosa si può fare allora per reagire in modo più costruttivo in queste situazioni? È importante riconoscere che queste situazioni si vengono a creare improvvisamente, provocate da problemi momentanei, non molto gravi (situazioni che richiedono soluzioni immediate). I nostri obiettivi in situazioni di questo genere sono spesso diversi da quelli di lungo termine. In queste situazioni si dovrà cercare di concentrarsi di più sugli obiettivi di lungo termine piuttosto che sugli obiettivi di breve termine. Se si riuscirà a farlo, lo stress che si prova in quei particolari momenti diventerà un’opportunità di dare ai nostri figli preziosi insegnamenti.

La via più efficace per ottenere dei risultati e consolidare una buona relazione è quella di cercare di capire cosa ci sia dietro ad un comportamento apparentemente insensato come quello del capriccio ed, allo stesso tempo mostrare comprensione ponendo però dei limiti al bambino. Si può stimolare il bambino a ragionare sul problema e sulla strategia alternativa al capriccio per risolverlo, insegnando così a gestire in maniera costruttiva le emozioni e a risolvere i problemi.

Quanto è difficile dire “no” ai bambini e quanto è importante per loro? Molto spesso si ha paura di entrare in conflitto con i propri figli. Certamente si fa fatica ad affrontare le lamentele, le richieste estenuanti, i capricci, le tensioni, le urla, ma al di là di questo, ciò che oggi gli adulti sembra facciano fatica a gestire più di tutto è la solitudine che deriva dal dire no. Il No implica una separazione, il conflitto pone distanza e pone un limite a quella unità fusionale, impossibile da mantenere perché il figlio è altro da sé, è una persona Altra che ha bisogno di limiti da testare nel suo processo di esplorazione della realtà. Dire no significa allora entrare in contatto, per il bambino significa riconoscere che oltre a sé esiste anche l’altro. Ma il no è anche conflittuale: sostiene il rapporto e ne accetta le complicazioni, non rinunciandovi neanche in caso di contrasto. Il no che fa parte di un progetto educativo condiviso il più possibile con i genitori, ha una funzione regolativa e di indirizzo che si integra bene con la componente affettiva e di legame con i figli.

Immaginiamo di osservare la situazione attraverso l’obiettivo di una macchina fotografica. Con questo obiettivo si potrà “zumare in avanti” o “zumare indietro”. Se si zumasse in avanti si riuscirebbe a vedere soltanto i problemi di breve termine, provando lo stress e reagendo “emotivamente” solamente a quello che sta accadendo in quel particolare momento. Se invece si zumasse indietro si riuscirebbe ad avere una visione più ampia del contesto in cui si svolge quell’avvenimento potendo così vedere i fattori che hanno contribuito a creare quella particolare situazione, per esempio una reazione o un comportamento dell’adulto, considerando persino quale effetto essa potrà avere su eventi futuri.

In quest’ottica, i capricci, anziché fonte di stress per i genitori potrebbero diventare un’occasione di insegnamento per i più piccoli che imparerebbero a:

gestire lo stress;

comunicare con gentilezza anche in situazioni di tensione;

gestire le situazioni conflittuali senza ricorrere alla violenza;

tenere conto dei sentimenti degli altri;

raggiungere i propri obiettivi senza ferire gli altri a livello fisico o emotivo

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I legami che creano. L’evoluzione del gioco nei bambini.

Giocare è una delle attività più importanti per lo sviluppo dei bambini. Attraverso di esso esplorano e conoscono il mondo e crescono. Non è qualcosa che riempie dei vuoti tra un’attività e l’altra, ma è l’attività per eccellenza che loro utilizzano per scoprire tutto ciò che li circonda.

Il gioco del bambino si evolve nel corso del tempo e Mildren Parten (1932), osservando le interazioni ludiche dei bambini all’asilo nido, ha elaborato una classificazione dei diversi tipi di gioco che si susseguono durante lo sviluppo psicofisico.

  • Gioco libero: situazione in cui il bambino non è impegnato secondo l’idea comune di gioco e può stare fermo in un posto, guardarsi attorno, o fare dei movimenti a caso che non sembrano avere uno scopo ben preciso.

  • Gioco solitario: situazione in cui il bambino gioca da solo e indipendentemente dagli altri.

  • Gioco da spettatore: gioco in cui il bambino guarda gli altri giocare.

  • Gioco parallelo: situazione in cui il bambino gioca separato dagli altri ma con giochi uguali a quelli degli altri o in un modo che mima il loro gioco.

  • Gioco associativo: implica un’interazione sociale con nessuna o poca organizzazione.

  • Gioco cooperativo: implica un’interazione sociale strutturata tra individui con un senso di identità di gruppo e un’attività organizzata.

Questa classificazione può essere ampliata andando a considerare, oltre che lo sviluppo sociale del bambino, anche lo sviluppo cognitivo. In quest’ottica possiamo considerare come il gioco vada di pari passo con le fasi dello sviluppo cognitivo. Inizialmente si può osservare un gioco sensomotorio che ha la funzione, grazie all’utilizzo dei sensi e dei movimenti, di esplorazione e conoscenza dell’ambiente circostante. Dopodichè, intorno agli 8-9 mesi fino ai 2 anni, il gioco assume una connotazione simbolica. E’ il gioco di finzione attraverso il quale il bambino trasforma l’ambiente fisico in qualcosa di simbolico. Questa fase coincide con lo sviluppo linguistico e quindi l’emergenza del pensiero il bambino è in grado di “far finta che..”. Emerge poi il gioco definito sociale, in cui rientra la classificazione della Parten, che prevede un’interazione sempre crescente coi i pari.

Ogni gioco ha funzioni specifiche: «Il gioco di finzione è importantissimo perché permette, soprattutto ai bambini più piccoli, di rielaborare le emozioni che vivono nel quotidiano. In pratica, attraverso una rappresentazione, rimettono in gioco tutto ciò che hanno vissuto, sia per renderlo più chiaro sia per poterlo elaborare. È un’attività che non va ostacolata, né diretta: va solo assecondata.
A volte, le loro messinscene possono anche turbarci, ad esempio, qualche volta possono far finta di essere la maestra che sgrida i bambolotti o i pupazzi. Questo non deve allarmare i genitori, che devono ricordarsi che i bambini stanno solo utilizzando uno strumento che li aiuta a rivivere e comprendere meglio quello che è successo.
Il gioco di finzione, tendenzialmente, si fa da soli, ma possono esserci da parte del bambino delle richieste di interazione con altri coetanei oppure con i genitori. Mamme e papà si devono lasciar coinvolgere, ma assecondando i loro figli, senza intervenire e gestire il gioco.

Molto importanti sono anche i giochi “fisici” attraverso i quali i bambini liberano l’aggressività. Durante le ore che i bambini stanno all’asilo, fanno attività molto belle ma non sono liberi di muoversi ed i giochi sono diretti dagli adulti, è quindi molto importante che i bambini abbiano a disposizione un po’ di tempo per liberare le loro energie, correndo, acchiappandosi. Sono giochi che ai genitori possono sembrare confusionari, o spaventarli, come ad esempio la lotta. «Ma in queste attività, invece, i bambini sanno autoregolarsi: se qualcosa non funziona, si fermano. È un modo protetto e adeguato di tirare fuori l’aggressività. Dunque, salvo i casi in cui sia strettamente necessario, è bene che i grandi facciano un passo indietro e lascino giocare i bambini liberamente.

Qual’è il ruolo dei genitori?

Giocare insieme ai bambini è bellissimo e non c’è una regola fissa su come si deve fare.  Giocare insieme è un’attività che rafforza i legami. Bisogna comunque intervallare i momenti in cui si gioca con il bambino ad altri in cui lo si lascia giocare in autonomia. E questo tempo, man mano che il bimbo cresce, dovrà aumentare. Non sarà sempre facile, ma è un passaggio importante per imparare anche a stare da solo.

Un’altra accortezza è quella di dare la possibilità ai propri figli di giocare con altri bambini. Non lo si può pretendere quando sono molto piccoli, ma comunque far stare i propri piccoli con altri bambini al di fuori del contesto scolastico o di corsi post-scuola è importante. E non è necessario che siano coetanei. Sarà un modo per abituarli a stare in situazioni libere, non strutturate, con altre persone e bambini da cui impareranno molto, soprattutto se i genitori avranno l’accortezza e la possibilità di non intervenire sempre per sedare le loro liti o momenti di tensione.

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I giochi dei bambini non sono giochi, e bisogna considerarli come le loro azioni più serie. (Michel De Montaigne)