Autore archivio: saraanderlini

Genitorialità: orientarsi verso la ripresa. Nuovi adattamenti in corso.

In un momento in cui si prospetta una ripresa, se pur parziale, della vita che eravamo abituati a condurre, dove sembra che molte attività stiano riaprendo, dove si intravede l’apertura incerta di centri estivi e scuole, si fa grande il dubbio da parte dei genitori su cosa sia più adeguato fare in una situazione così complessa.

Lo mando all’asilo? Lo faccio stare con i nonni? Come sarà per lui la ripresa sapendo che dovrà imparare a convivere con mascherina e distanziamento sociale? Come posso far sì che si abitui? Sarà pericoloso?

Questi sono alcuni degli interrogativi che i genitori si fanno in questo periodo.

E’ difficile dare una risposta che vada bene per tutti senza considerare il contesto in cui il bambino è inserito, le risorse che sono presenti e le attitudini del bambino stesso.

Ciò che accomuna i genitori che si pongono queste domande è probabilmente la condizione di insicurezza e precarietà che questa situazione porta a vivere.

Innanzitutto è importante considerare che si sta uscendo da una situazione carica di significati, di esperienze nuove che portano a riconsiderare i propri vissuti soprattutto connessi alla genitorialità. E’ normale avere paura ed essere preoccupati di trovare la miglior soluzione possibile, ma andiamo per gradi.

E’ prima di tutto importante accogliere ed ascoltare le proprie emozioni, comprendere cosa ci comunicano. Per poter sostenere i bambini, qualunque sarà la scelta che prenderemo ed essere funzionali nell’accogliere i loro stati d’animo è importante capire come stiamo, come viviamo una scelta in una direzione piuttosto che in un’altra.

E’ poi importante valutare cosa implicano le diverse alternative ed una volta che abbiamo accolto le paure, sarà più facile permetterci di osservare e considerare diverse prospettive.

Diamo uno sguardo ora ai bambini, ai quali la situazione ha richiesto un grande adattamento e a quante risorse hanno già messo in campo fino ad ora. I bambini sono stati, in questo periodo, chiusi in casa con noi genitori dovendo rinunciare alle interazioni con i pari.

Il tipo di stimolazione che un bambino riceve dal contatto con altri bambini, dal gioco, è diversa e non meno importante di quella che riceve dai genitori e dai nonni.

Ma quindi cosa fare? La verità è che non c’è una soluzione che vada bene per tutti, va valutato il contesto, la qualità delle relazioni che il bambino può avere nel proprio nucleo e al di fuori, come il bambino ha vissuto e sta vivendo il periodo.

Ciò che come genitori possiamo fare in questo momento così particolare, che rappresenta una grande sfida nella genitorialità che si sta ridefinendo è da una parte accogliere le sensazioni, le emozioni, comunicarle all’interno della coppia genitoriale. Questo permetterà, da una parte, di condividere con l’altro gli stati d’animo e comprendere come l’altro sta vivendo la situazione per arricchire la propria prospettiva e quella dell’altro e costruirne una condivisa da cui poter partire per far in modo che le decisioni che verranno prese siano calibrate rispetto al proprio nucleo familiare e al proprio bambino.

I bambini, se sostenuti ed accompagnati, sono in grado di mettere in campo le risorse necessarie per far in modo che una condizione nuova si faccia possibilità di apprendimento ed acquisizione di nuove prospettive ed esperienze.

Se noi adulti ci permettiamo di alleggerirci e ci creiamo le condizioni per poter far in modo di guidarli e sostenerli potremo sorprenderci di quanto i bambini si riadatteranno, con assoluta naturalezza.

Spazio Famiglia (2)

Cos’è e cosa può fare SPazio Famiglia?

 

SPazio Famiglia prende forma con l’intento di dar voce alle storie e alle esigenze delle famiglie che in ogni momento della loro esistenza si ritrovano a vivere momenti di transizione e di crescita costanti ed a volte difficili.

Uno sguardo attento viene rivolto agli adulti di riferimento, ai genitori e ai più piccoli, impegnati anche loro a destreggiarsi in tutti i momenti della loro crescita e in quell’ “essere all’altezza” ai diversi contesti e alla produttività richiesta dalla nostra società, a cui la famiglia deve costantemente riadattarsi e reinventarsi.

COME REALIZZARE TUTTO CIO’?

 

Questi sono i servizi che vi proponiamo!

  • SOSTEGNO SCOLASTICO E POTENZIAMENTO COGNITIVO: inteso non solo come aiuto compiti finalizzato alla riuscita di ogni attività, ma come un intervento che prende in considerazione tutto il processo che accompagna il bambino al raggiungimento di ogni nuova conquista scolastica. Curare il processo significa dare spazio alle aree di competenza di ognuno, accogliere e coltivare lo stile di apprendimento proprio di ogni bambino lavorando ed incrementando così la motivazione e l’autostima inevitabilmente coinvolte nel modo dei più piccoli di approcciarsi all’apprendimento. Lavorare in questo modo riduce la possibilità che il bambino sperimenti ansia scolastica.

  • ACCOMPAGNAMENTO NELLA CRESCITA AFFETTIVA E RELAZIONALE DEI PIU’ PICCOLI: accompagnare i bambini nella loro crescita significa dare spazio alla loro sfera emotiva ed affettiva, come fattore protettivo per il loro sviluppo. E’ importante facilitare i processi che permettono ai bambini di riconoscere le emozioni, permettere che si esprimano e imparare a sentirle come parte integrante dell’esperienza. Le emozioni caratterizzano il modo di entrare ed essere in relazione con gli altri per questo è importante averne consapevolezza. L’autoregolazione emotiva permette di vivere anche le emozioni più intense in maniera funzionale così da evitare la messa in atto di comportamenti poco costruttivi e ritenuti a volte problematici.

  • SOSTEGNO GENITORIALE: Assumere il ruolo genitoriale coinvolge, oltre all’esigenza di riorganizzare oggettivamente tutto il sistema familiare, i significati che i membri della coppia attribuiscono a questo ruolo a partire dalla loro sfera individuale, dall’esperienza di figlio e dal loro modo di vivere le relazioni. Tutto questo implica il riconoscimento di un nuovo ruolo che viene assunto da entrambi i membri, in continuo divenire lungo il ciclo vitale degli individui coinvolti. I genitori dovranno stabilire le regole, educare ma essere amorevoli allo stesso tempo, assumendo un’ottica comune, accompagnati forse a volte dalla paura di sbagliare, dalla sensazione di essere inadeguati. SPazio Famiglia, da questo punto di vista, intende offrire un supporto alla genitorialità, offrendo ai genitori uno spazio in cui le proprie difficoltà possano essere accolte e sulla base di queste strutturare un percorso di supporto quanto più personalizzato, a partire dalle risorse già presenti, coinvolgendo tutti i membri del sistema, in un’ottica di condivisione ed accettazione priva di giudizio.

Sara Anderlini Psicologa & Paola Pellegrino Psicologa

Per informazioni:

  • 329 11 24 752 (Sara)

  • 328 67 64 327 (Paola)

  • spazio.famiglia.psi@gmail.com

Tutti a casa! Genitori e figli h24!

Sono tanti i cambiamenti che questo periodo di emergenza e di quarantena sta generando a diversi livelli. Un’attenzione particolare deve essere posta alla genitorialità. Come la quarantena influisce sul modo in cui i genitori si prendono cura ed educano i bambini? Quanto influisce sui bambini e come i genitori possono sostenere le difficoltà che incontreranno e in che modo possono dare un contributo nella gestione di questo periodo con i propri figli?

Partiamo innanzitutto col definire che cosa si intende con il termine “Genitorialità” per poi inquadrarla all’interno del periodo che stiamo vivendo.

Il concetto di genitorialità presuppone non solo l’arrivo di un figlio dal punto di vista biologico ma include tutti quei significati che due persone danno al diventare genitori.

Diventare genitori comporta già dall’inizio della gravidanza l’assunzione di un nuovo ruolo per i membri della coppia. L’assunzione del ruolo genitoriale comporta grandi cambiamenti dal punto di vista psicologico e relazionale che, saranno presenti ed in continua evoluzione lungo tutto il resto del ciclo vitale degli individui coinvolti che si trovano a dover svolgere una nuova funzione, compiere scelte, elaborare decisioni, individuare obiettivi assumendo un’ottica comune.

La genitorialità è, quindi, un processo dinamico rappresentato dalla nascita non solo di un figlio, ma di una nuova relazione, in perenne trasformazione, in linea con lo sviluppo cognitivo, emotivo e sociale dei bambini.

Questo periodo ci pone di fronte ad una grande sfida, quella di sostenere la genitorialità che sta vivendo una trasformazione, una ridefinizione nei tempi e nelle modalità di prendersi cura dei bambini. Come possiamo far in modo che questa ridefinizione sia funzionale?

La quarantena porta le famiglie a stare in perenne contatto, i genitori si trovano a dover ridefinire la propria quotidianità come individuo e come coppia, dall’altra si trovano a dover gestire le difficoltà che incontrano i bambini. Le scuole sono chiuse, questo comporta per i bambini un isolamento dai propri coetanei ed amici, dal proprio ambiente scolastico, da alcune figure di riferimento come i nonni. I bambini e ragazzi devono organizzarsi con le lezioni online e con i compiti ed i genitori sono chiamati, ora più di prima a sostenere questo processo.

Nel mio lavoro tendo sempre a dirigere l’attenzione, una volta conosciuto ciò che crea disequilibrio, verso le risorse che albergano in ognuno di noi e che possiamo cogliere in ogni situazione che siamo chiamati ad affrontare.

Come si può cogliere l’opportunità di crescita in tutto questo? Innanzitutto accogliendo e riconoscendo le difficoltà, partendo da ognuno di noi. Diamo voce prima di tutto alla sfera individuale. Prendendoci cura della sfera personale potremo essere funzionali nella relazione con l’Altro e potremo essere in grado di sostenere e proporre chiavi di lettura ai bambini.

E’ importante che la persona possa trovare un modo quanto più affine al proprio modo di vivere per organizzare il proprio tempo in casa, ascoltando le proprie emozioni, i propri interessi. E’ essenziale che ognuno si prenda del tempo per valorizzare la propria individualità. Se prima era naturale passare del tempo lontani, ad esempio lavorando fuori casa, facendo sport ecc, ora è importante che ognuno si prenda uno spazio personale in relazione ai propri bisogni e ai bisogni degli altri. Questa è una risorsa che ognuno potrà poi portarsi con sé. Imparare a riconoscere e comunicare i propri bisogni è essenziale all’interno della coppia ed è essenziale anche per la coppia genitoriale che si trova a perseguire un obiettivo condiviso e se viene fatto con la maggiore serenità possibile è molto meglio.

Quindi la parola d’ordine è comunicazione. Comunicazione tra i partner e comunicazione con i bambini e ragazzi. Comunichiamo sia le emozioni positive che quelle negative e poi proviamo ad accogliere quelle che i bambini ci esprimeranno. Questo aiuterà a distendere le tensioni, migliorerà le relazioni, predisporrà i bambini all’acquisizione di competenze relazionali e faciliterà la predisposizione di nuove routine e l’organizzazione del quotidiano.

In questa fase è importantissimo per tutti i membri della famiglia l’organizzazione e la riconfigurazione dei ritmi che normalmente erano scanditi da attività e impegni.

E’ essenziale costruire una routine e fare in modo che anche i più piccoli la rispettino.

Ad esempio dedicare del tempo per le attività scolastiche e se possibile, stabilire anche un ambiente preciso in casa in cui il bambino può dedicarsi tranquillamente ai compiti, così come gli adulti stabiliranno l’ambiente dedicato al proprio lavoro. Questo creerà le condizioni per far sì che il bambino identifichi il momento della giornata e il luogo per mantenere una continuità con la scuola e con l’apprendimento.

Il tempo a disposizione potrà facilitare poi le attività condivise in famiglia, dando spazio alla creatività ed in questo potremo farci aiutare da loro. Non dimentichiamoci che anche i più piccoli hanno bisogno, in relazione all’età, di momenti in cui coltivare la propria individualità, possiamo quindi lasciare spazio alla loro fantasia, non preoccupandoci di dover riempire tutti i loro tempi ma sostenendo anche l’autonomia.

Questi momenti di ridefinizione della quotidianità rappresentano una difficoltà ma anche una potenzialità. Ascolto dei propri bisogni, comunicazione, sostegno ai più piccoli possono rappresentare delle competenze relazionali che arricchiranno la storia familiare e faciliteranno lo sviluppo.

family-1721674_1280

Oltre il suono delle parole



<<È davvero tremendo sentirsi tagliati fuori dal mondo, dalle sue parole e, dunque, dai suoi concetti, dato che questi, generalmente, si esprimono proprio con le parole. La gente parla, parla, e tu non capisci, non solo i singoli vocaboli ma frasi intere. Ti devi aggrappare alle loro labbra, e siccome neanche quelle bastano, per come corrono veloci, ti affidi a tutto ciò ti possa essere d’aiuto: alle smorfie, al gesticolare, alle teste che annuiscono, ai menti che si ritraggono, alle sopracciglia che si inarcano. Devi capire tutto senza capire niente. È come voler comprendere l’oggetto di un quadro ostinandosi a fissare la sua cornice. E i tuoi occhi, che diventano orecchie, si spalancano, e le tue pupille ricordano quelle di un visionario. Non esiste rilassamento, esiste solo una perenne tensione lacerante, uno spremere i globi oculari per ritrovarsi con pochi elementi in mano chiamando a rapporto tutte le rimanenti facoltà del cervello per osservare, dedurre, arrivare al medesimo punto – la comprensione – inoltrandosi per una strada tutta diversa. […] Il brutto della sordità è che taglia fuori dalla vita in un modo così netto ed umiliante che, appena te ne accorgi, sei tu stesso a non voler essere un peso per chi ti è vicino […]. Quel senso di impotenza, di volere e non potere, è alla lunga, per chi la vita la adora, dilaniante […]. Adeguarsi al mondo circostante per la paura […] di essere escluso comporta un mutamento della propria personalità, uno svilimento di questa, un degrado talvolta penoso verso il non-essere-umano>> (Daniele Regolo).

La comprensione, è uno dei bisogni fondamentali dell’essere umano che permette di stabilire un contatto, una relazione con l’altro. La sordità crea una barriera all’ascolto e alla comprensione ostacolando così le relazioni.

Le persone sperimentano vissuti di profondo isolamento, di paura, fino ad arrivare al non sentirsi umani. Non rimane che adeguarsi ad un mondo, sforzandosi di osservare, captare ogni singolo stimolo labiale o gestuale per conservare quella comprensione che permette di rimanere in relazione con l’altro.

Ma davvero l’ascolto e la relazione sono riconducibili solamente ad un’attenzione veiocolata all’uso dell’udito e del parlato o una possibilità di relazionarsi attraverso altri canali comunicativi esiste?

<<L’ascolto.. […] È una cosa che accade quanto ti prendi il tempo per guardarti attorno, per restartene immobile la sera, per meravigliarti della mattina. Ascoltare significa essere cosciente, osservare, attendere con pazienza il successivo segnale di comunicazione. E ancora, come chiunque abbia difficoltà di parola o udito può spiegare, ascoltare non sempre si riferisce a una comunicazione uditiva. Allora come possiamo definire l’“ascoltare” perché possa includere tutti gli eventi che si verificano quando una persona sorda o con un deficit uditivo parla con un amico, passeggia da sola su una spiaggia, occupa il suo posto nel mondo in un qualsiasi giorno specifico? Le orecchie di una persona così non colgono molte cose. Ma quella meraviglia che è il corpo umano sembra voler volare al di là di questo vuoto. Quando tutta l’energia sonora della Terra è ricevuta come un sussurro, o forse non la si riceve per niente, altri sensi si affinano e afferrano gli indizi di comunicazione che abbiamo dimenticato, nella fretta di vivere. Ascoltare diviene un atto visuale, tattile, intuitivo. Ascoltare… forse… è solo una mente consapevole…>>

Ascolto significa osservare, sentire, toccare, intuire, significa esserci.

Un ascolto così coglie l’unicità, è fatto di un contatto profondo che supera le barriere ed accoglie l’essenza di ognuno di noi, ed ecco che una nuova strada che non si fa limite ma potenzialità si apre e rende possibile andare oltre il suono delle parole.

butterflies-1655657_1280

Testimonianze da“Così ascoltano i sordi. Riflessioni attorno ad alcune testimonianze autobiografiche dei non udenti” in Scienze e Ricerche.

La malattia oncologica ed il suo impatto sul nucleo familiare

La diagnosi di tumore è senz’altro un’esperienza devastante sia per il malato che per i familiari, tanto che la malattia oncologica viene spesso vissuta come una vera e propria “malattia familiare” in cui sono coinvolti tutti i membri che si trovano a vivere in una dimensione temporale del tutto nuova, in un tempo sospeso fatto di ansia, di preoccupazione, di controlli medici, di terapie.

Il tumore rappresenta un trauma fisico, psicologico e sociale in cui la progettualità del paziente e di tutto il nucleo familiare viene congelata da una nuova presenza in famiglia, la paura.

L’impatto del tumore sul malato: dalla comunicazione della diagnosi.

Quella della comunicazione della diagnosi è un momento particolarmente doloroso e traumatico per la vita di una persona in cui ella si può sentire disorientata, sotto attacco, arrabbiata ed estremamente disperata.

L’autrice Elisabeth Kubler Ross nel suo libro On Death and Dyingdel 1969 –La morte e il morireenucleò le 5 fasi dell’elaborazione del lutto e della perdita che spiegano come avviene il processo di adattamento alla malattia che il malato compie a partire dalla dolorosa diagnosi.

  • La fase del rifiuto e isolamento in cui sono tipici pensieri del tipo “non è possibile!”, “non sta succedendo davvero!”
  • La fase di collera che si esprime con pensieri e frasi del tipo “perchè sta succedendo proprio a me e non a qualcun’altro?!”
  • La fase del venire a patti dove il paziente, in un certo senso, scende a compromessi con la malattia e con la sua nuova condizione.
  • La fase della depressione in cui emerge una maggiore consapevolezza di ciò che si sta attraversando.
  • La fase di accettazione che prevede l’elaborazione della nuova condizione e ”l’abbandono della lotta”

Nel periodo successivo alla diagnosi,caratterizzato sul piano medico da trattamenti, cure, e controlli, è molto frequente osservare nei pazienti elevati livelli di ansia, stress e paura che sono normali entro certi limiti ma che necessitano di attenzione. La persona in questo percorso va sostenuta per preservare la capacità di funzionare a livello psicologico, sociale e relazionale e per stimolare le risorse residue nel rispondere alla situazione estremamente difficile.

L’impatto del tumore sui familiari e sui caregiver.

Il cancro è una malattia che non invalida solo il malato ma l’intero nucleo familiare che si trova a dover affrontare da una parte il disorientamento, il dolore e la paura nei confronti della persona amata, dall’altra la confusione e il disequilibrio che si crea all’interno dei ruoli familiari. Può accadere che la persona accudente (per esempio nel caso in cui il malato sia un genitore) diventi tutto d’un tratto la persona accudita con una conseguente inversione di ruoli che genera senz’altro una condizione di instabilità. In questa nuova condizione di ricerca di un nuovo equilibrio familiare, sono del tutto normali pensieri catastrofici, ansia, sensazione di perdita di controllo e di non essere in grado di gestire le proprie emozioni e la situazione.

L’ambiente familiare rimane però di fondamentale importanza poiché fornisce il contesto di adattamento in cui la persona reagisce alla diagnosi e valuta l’evento e le proprie risorse per farvi fronte dunque all’interno di un’ottica multidisciplinare va data attenzione non solo ai sintomi riportati dal malato ma anche a quelli dei familiari che manifesteranno ansia, stress e depressione allo stesso modo. Alla luce di tutto ciò si rende necessaria la predisposizione di percorsi psicologici che coinvolgano il malato e i familiari e che sostengano entrambi nella ricerca di un senso da dare alla malattia, alla ricerca di un nuovo equilibrio familiare ed individuale.

 

hands-1246598_1280

 

Mamma, papà sono arrabbiato! I capricci e la rabbia del bambino, dispetto o opportunità di crescita?

Il capriccio può essere considerato una modalità che il bambino utilizza per comunicare un disagio in diverse situazioni, poiché è ancora immaturo per poter gestire lo stress e le emozioni in maniera più adeguata, dovrà impararlo grazie al modo in cui i genitori gestiranno i capricci e li trasformeranno in occasioni di apprendimento.

Cosa vuole comunicare il bambino? I capricci si svolgono sempre su due piani, quello esplicito che fa riferimento alla specifica situazione e che di solito coinvolge motivazioni irrilevanti per entrambi (es. il bambino fa i capricci perché vuole il gelato e la mamma non glielo vuole comprare) ed il piano implicito, quello più importante, di cui di solito le parti coinvolte sono poco consapevoli, forse il bambino un po’ di più.

Quali sono i più frequenti aspetti in gioco, sul piano implicito, visti dal punto di vista di un bambino?

  • Ho bisogno di un segno concreto del tuo amore per me, perché non sono sicuro che tu (in questo momento, o in questo periodo, o in ogni momento) mi ami”. Questo bisogno di rassicurazione sull’essere amato può dipendere da moltissime circostanze. Potrebbe essere che il genitore in quel periodo sia davvero distratto da preoccupazioni e problemi “da grandi”, che lo allontanano mentalmente e magari anche fisicamente dal bambino. Può essere che il bambino dubiti dell’amore dei genitori per lui, perché è in arrivo (o è già arrivato) un fratellino o una sorellina. “Che bisogno avevano di farne un altro? Forse li ho delusi”.Il bambino potrebbe essere angosciato perché ha sentito che mamma e papà intendono separarsi, o ha visto che realmente si sono separati. “Sento te come distratto, addolorato, depresso, preoccupato, fragile, bisognoso, confuso, entusiasta per qualcosa d’altro, ecc., per cui temo (o percepisco) di avere perduto il tuo amore, e cerco una rassicurazione”.

  • Ho bisogno di sapere quanto potere ho io, sia in assoluto sia nella relazione con te”. Il potere è quella funzione relazionale che fa sì che un’altra persona faccia qualche cosa che altrimenti non farebbe. “Ho bisogno di mettere me alla prova”. Posso anche avere bisogno di verificare quanto tu accetti che anche io possa avere un po’ di potere su di te, e non solo tu su di me. Posso, infatti, essere angosciato sia se ho troppo potere sia se ne ho troppo poco. Ho bisogno di verificare quanto potere ho, da un lato per non sentirmi in balia soltanto di me stesso (cioè: non affidato a nessuno), e dall’altro lato per non sentirmi schiacciato dalla prepotenza degli altri, te compreso.

  • Ti segnalo che non stai gestendo adeguatamente il tuo potere con me, mentre io ho bisogno che tu lo eserciti adeguatamente, in modo più chiaro, coerente ed esplicito, così che io possa orientarmi meglio e trovare così sicurezza”. In questo caso, col capriccio il bambino provoca l’adulto, per poter avere la percezione di essere importante per lui. Gli segnala che ha bisogno che nelle interazioni con lui vengano attivate funzioni “paterne”, benevoli ma ferme, che sanciscano i limiti e le regole. Ha bisogno, in sostanza, che l’adulto gli dica “No”, con fermezza e con chiarezza. Spesso, quella di ricevere regole ben definite e vincolanti è un’esigenza di percepire attorno a sé un mondo in cui ci si possa muovere con una sufficiente sicurezza.

  • Ho bisogno di sapere se la persona cui sono affidato è sufficientemente stabile e forte”. Poche cose sono così angoscianti per un bambino come il constatare che l’adulto cui è affidato è una specie di fragile marionetta in suo potere. L’insicurezza devastante che ne deriva talvolta viene dal bambino affrontata assumendo lui la parte di quello “forte”, che impone il proprio volere. Ma, inevitabilmente, lo farà come può farlo un bambino, senza gran che di esperienza di vita.

  • Ho bisogno di sapere che non sono solo affidato a te, ma che ho anche un certo grado di autonomia da te”. Quando un bambino sente preclusa ogni possibilità di riconoscimento delle sue proprie competenze e del suo proprio realistico grado di autonomia, è possibile che, prima di disperarsi del tutto, cerchi di “forzare” l’adulto con dei capricci.

  • Ho bisogno di percepire me come soggetto della mia vita e ti segnalo la necessità che tu te ne accorga e che mi riconosca in questo mio bisogno”. Il bambino ha bisogno che sia sistematicamente riconosciuto dagli adulti che si occupano di lui il valore del suo sentire, del suo pensare, del suo desiderare e del suo volere.

I capricci rappresentano l’unica espressione del bambino che deve comunicare un disagio e dovrà con il tempo e l’aiuto degli adulti imparare a tollerare le frustrazioni, comunicare i suoi bisogni e malesseri in maniera adeguata e saper gestire la rabbia e lo stress.

Se verranno gestiti all’interno di un clima autorevole ma accogliente i capricci potranno rappresentare una lezione ed una occasione per imparare insieme a gestire meglio le emozioni.

I capricci portano i genitori a sperimentare alti livelli di stress e frustrazione che potrebbero scatenare reazioni eccessive che diventerebbero diseducative. Occorre quindi, fare una distinzione tra “cervello razionale” e “cervello emotivo”.

Quando siamo calmi il nostro “cervello razionale” ci permette di ragionare in modo lucido. Riusciamo a riflettere sulle cose e ci comportiamo in modo costruttivo. Quando, invece, ci sentiamo sotto pressione il nostro corpo e il nostro cervello reagiscono di conseguenza: i muscoli si irrigidiscono, il battito cardiaco aumenta e il cervello entra in stato di panico. Il nostro “cervello emotivo” prende il sopravvento, non riusciamo più a pensare in modo lucido e reagiamo in modo emotivo. Di fronte ad un bambino che urla e piange ogni adulto si chiede quale sia la modalità più adeguata per gestire il capriccio e sono frequenti e del tutto normali sentimenti come la frustrazione, la confusione, sconforto e rassegnazione. Una volta adottata una strategia ci si chiede se è quella giusta oppure no e nella maggior parte dei casi i capricci continuano, essendo una normale manifestazione del disagio in età infantile. Il capriccio è da sempre considerato un modo inadeguato ed eccessivo del bambino di voler imporre all’adulto la propria volontà, con un comportamento che mette a dura prova anche il genitore più paziente. La situazione diventa ancora più pesante se questo avviene in luogo pubblico o davanti a persone da cui ci si sente giudicati.

Gli stati d’animo che queste reazioni suscitano nell’adulto sono in genere rabbia, frustrazione, senso di impotenza e di fallimento, scoraggiamento, imbarazzo.. Per far fronte a tali sentimenti spiacevoli si tende ad avere due atteggiamenti opposti:

  • eccessiva rigidità, che comporta reazioni di rabbia come urlare e punire il bambino. Queste risposte tendono però a porre fine all’ascolto empatico dell’altro e a spostare l’asse della relazione su un gioco di potere. La conseguenza sarà frustrazione e risentimento nel piccolo, che sfogherà quando e come meglio può.
  • lassismo e permissività, che prevedono l’accontentare ogni desiderio del bambino purché non pianga e non manifesti sentimenti “negativi” faticosi da sostenere. In questo modo il bambino capisce che questa modalità “funziona” per ottenere quello che vuole e spinge sempre oltre le richieste. I comportamenti che il genitore spera di evitare vengono così consolidati e si consegna al bambino un carico che non è in grado di sostenere: la responsabilità delle decisioni, che almeno fino ai 6-7 anni ha ancora bisogno che qualcun altro prenda per lui.

Cosa si può fare allora per reagire in modo più costruttivo in queste situazioni? È importante riconoscere che queste situazioni si vengono a creare improvvisamente, provocate da problemi momentanei, non molto gravi (situazioni che richiedono soluzioni immediate). I nostri obiettivi in situazioni di questo genere sono spesso diversi da quelli di lungo termine. In queste situazioni si dovrà cercare di concentrarsi di più sugli obiettivi di lungo termine piuttosto che sugli obiettivi di breve termine. Se si riuscirà a farlo, lo stress che si prova in quei particolari momenti diventerà un’opportunità di dare ai nostri figli preziosi insegnamenti.

La via più efficace per ottenere dei risultati e consolidare una buona relazione è quella di cercare di capire cosa ci sia dietro ad un comportamento apparentemente insensato come quello del capriccio ed, allo stesso tempo mostrare comprensione ponendo però dei limiti al bambino. Si può stimolare il bambino a ragionare sul problema e sulla strategia alternativa al capriccio per risolverlo, insegnando così a gestire in maniera costruttiva le emozioni e a risolvere i problemi.

Quanto è difficile dire “no” ai bambini e quanto è importante per loro? Molto spesso si ha paura di entrare in conflitto con i propri figli. Certamente si fa fatica ad affrontare le lamentele, le richieste estenuanti, i capricci, le tensioni, le urla, ma al di là di questo, ciò che oggi gli adulti sembra facciano fatica a gestire più di tutto è la solitudine che deriva dal dire no. Il No implica una separazione, il conflitto pone distanza e pone un limite a quella unità fusionale, impossibile da mantenere perché il figlio è altro da sé, è una persona Altra che ha bisogno di limiti da testare nel suo processo di esplorazione della realtà. Dire no significa allora entrare in contatto, per il bambino significa riconoscere che oltre a sé esiste anche l’altro. Ma il no è anche conflittuale: sostiene il rapporto e ne accetta le complicazioni, non rinunciandovi neanche in caso di contrasto. Il no che fa parte di un progetto educativo condiviso il più possibile con i genitori, ha una funzione regolativa e di indirizzo che si integra bene con la componente affettiva e di legame con i figli.

Immaginiamo di osservare la situazione attraverso l’obiettivo di una macchina fotografica. Con questo obiettivo si potrà “zumare in avanti” o “zumare indietro”. Se si zumasse in avanti si riuscirebbe a vedere soltanto i problemi di breve termine, provando lo stress e reagendo “emotivamente” solamente a quello che sta accadendo in quel particolare momento. Se invece si zumasse indietro si riuscirebbe ad avere una visione più ampia del contesto in cui si svolge quell’avvenimento potendo così vedere i fattori che hanno contribuito a creare quella particolare situazione, per esempio una reazione o un comportamento dell’adulto, considerando persino quale effetto essa potrà avere su eventi futuri.

In quest’ottica, i capricci, anziché fonte di stress per i genitori potrebbero diventare un’occasione di insegnamento per i più piccoli che imparerebbero a:

gestire lo stress;

comunicare con gentilezza anche in situazioni di tensione;

gestire le situazioni conflittuali senza ricorrere alla violenza;

tenere conto dei sentimenti degli altri;

raggiungere i propri obiettivi senza ferire gli altri a livello fisico o emotivo

boy-3974291_1280

I legami che creano. L’evoluzione del gioco nei bambini.

Giocare è una delle attività più importanti per lo sviluppo dei bambini. Attraverso di esso esplorano e conoscono il mondo e crescono. Non è qualcosa che riempie dei vuoti tra un’attività e l’altra, ma è l’attività per eccellenza che loro utilizzano per scoprire tutto ciò che li circonda.

Il gioco del bambino si evolve nel corso del tempo e Mildren Parten (1932), osservando le interazioni ludiche dei bambini all’asilo nido, ha elaborato una classificazione dei diversi tipi di gioco che si susseguono durante lo sviluppo psicofisico.

  • Gioco libero: situazione in cui il bambino non è impegnato secondo l’idea comune di gioco e può stare fermo in un posto, guardarsi attorno, o fare dei movimenti a caso che non sembrano avere uno scopo ben preciso.

  • Gioco solitario: situazione in cui il bambino gioca da solo e indipendentemente dagli altri.

  • Gioco da spettatore: gioco in cui il bambino guarda gli altri giocare.

  • Gioco parallelo: situazione in cui il bambino gioca separato dagli altri ma con giochi uguali a quelli degli altri o in un modo che mima il loro gioco.

  • Gioco associativo: implica un’interazione sociale con nessuna o poca organizzazione.

  • Gioco cooperativo: implica un’interazione sociale strutturata tra individui con un senso di identità di gruppo e un’attività organizzata.

Questa classificazione può essere ampliata andando a considerare, oltre che lo sviluppo sociale del bambino, anche lo sviluppo cognitivo. In quest’ottica possiamo considerare come il gioco vada di pari passo con le fasi dello sviluppo cognitivo. Inizialmente si può osservare un gioco sensomotorio che ha la funzione, grazie all’utilizzo dei sensi e dei movimenti, di esplorazione e conoscenza dell’ambiente circostante. Dopodichè, intorno agli 8-9 mesi fino ai 2 anni, il gioco assume una connotazione simbolica. E’ il gioco di finzione attraverso il quale il bambino trasforma l’ambiente fisico in qualcosa di simbolico. Questa fase coincide con lo sviluppo linguistico e quindi l’emergenza del pensiero il bambino è in grado di “far finta che..”. Emerge poi il gioco definito sociale, in cui rientra la classificazione della Parten, che prevede un’interazione sempre crescente coi i pari.

Ogni gioco ha funzioni specifiche: «Il gioco di finzione è importantissimo perché permette, soprattutto ai bambini più piccoli, di rielaborare le emozioni che vivono nel quotidiano. In pratica, attraverso una rappresentazione, rimettono in gioco tutto ciò che hanno vissuto, sia per renderlo più chiaro sia per poterlo elaborare. È un’attività che non va ostacolata, né diretta: va solo assecondata.
A volte, le loro messinscene possono anche turbarci, ad esempio, qualche volta possono far finta di essere la maestra che sgrida i bambolotti o i pupazzi. Questo non deve allarmare i genitori, che devono ricordarsi che i bambini stanno solo utilizzando uno strumento che li aiuta a rivivere e comprendere meglio quello che è successo.
Il gioco di finzione, tendenzialmente, si fa da soli, ma possono esserci da parte del bambino delle richieste di interazione con altri coetanei oppure con i genitori. Mamme e papà si devono lasciar coinvolgere, ma assecondando i loro figli, senza intervenire e gestire il gioco.

Molto importanti sono anche i giochi “fisici” attraverso i quali i bambini liberano l’aggressività. Durante le ore che i bambini stanno all’asilo, fanno attività molto belle ma non sono liberi di muoversi ed i giochi sono diretti dagli adulti, è quindi molto importante che i bambini abbiano a disposizione un po’ di tempo per liberare le loro energie, correndo, acchiappandosi. Sono giochi che ai genitori possono sembrare confusionari, o spaventarli, come ad esempio la lotta. «Ma in queste attività, invece, i bambini sanno autoregolarsi: se qualcosa non funziona, si fermano. È un modo protetto e adeguato di tirare fuori l’aggressività. Dunque, salvo i casi in cui sia strettamente necessario, è bene che i grandi facciano un passo indietro e lascino giocare i bambini liberamente.

Qual’è il ruolo dei genitori?

Giocare insieme ai bambini è bellissimo e non c’è una regola fissa su come si deve fare.  Giocare insieme è un’attività che rafforza i legami. Bisogna comunque intervallare i momenti in cui si gioca con il bambino ad altri in cui lo si lascia giocare in autonomia. E questo tempo, man mano che il bimbo cresce, dovrà aumentare. Non sarà sempre facile, ma è un passaggio importante per imparare anche a stare da solo.

Un’altra accortezza è quella di dare la possibilità ai propri figli di giocare con altri bambini. Non lo si può pretendere quando sono molto piccoli, ma comunque far stare i propri piccoli con altri bambini al di fuori del contesto scolastico o di corsi post-scuola è importante. E non è necessario che siano coetanei. Sarà un modo per abituarli a stare in situazioni libere, non strutturate, con altre persone e bambini da cui impareranno molto, soprattutto se i genitori avranno l’accortezza e la possibilità di non intervenire sempre per sedare le loro liti o momenti di tensione.

run-1321278_1280

I giochi dei bambini non sono giochi, e bisogna considerarli come le loro azioni più serie. (Michel De Montaigne)

Lo Psicologo online – sportello remoto di consulenza e sostegno psicologico per persone affette da sordità e mutismo.

Nell’immaginario collettivo, il colloquio psicologico è un incontro gestito in presenza e tramite l’uso del canale verbale-orale, esattamente come l’etimologia stessa della parola colloquio ci suggerisce: dal lat. colloquium, comp. di con- e loqui «parlare», der. di collŏqui «parlare insieme».
A lungo, effettivamente, è stato così e, anche in rete, il primo passaggio di setting è avvenuto privilegiando lo scambio verbale.
Tuttavia, a oggi, le nuove tecnologie hanno aperto strade alternative e versatili per la gestione degli incontri con lo Psicologo.
Contributi ed evidenze raccolte sull’efficacia dei percorsi on line, unite all’uso di quelle metodologie, teorie e tecniche psicologiche che ben si prestano alla mediazione tecnologica, offrono l’opportunità di poter sfruttare questa dimensione in modo flessibile, per la gestione degli incontri.

È in quest’ottica che nasce, da un’idea della Dott. Francesca Di Donato – Psicologa, il progetto “Fuori dal coro – quando l’ascolto va oltre il suono delle parole”, proprio con l’intento di offrire un servizio dedicato al benessere psichico, che superi le barriere fisico-spaziali ma, soprattutto, quelle imposte da differenti canali comunicativi utilizzati dalla comunità dei non udenti, rispetto a quella degli udenti.

I canali di comunicazione a disposizione saranno:
– Telegram – chat
– What’s app – chat
– Skype – chat o video-chat

Per info, compensi, modalità di pagamento e primo appuntamento le comunicazioni devono pervenire solo ed esclusivamente via mail, al seguente indirizzo: ascolto.oltreilsuonodelleparole@gmail.com

A seguito della presa in carico, la comunicazione proseguirà privatamente con lo Psicologo di riferimento.

 

Fuori dal coro Sara web

Lo Psicologo del comportamento alimentare. Quale ruolo?

 

Quando si parla di comportamento alimentare si fa spesso riferimento solo alla componente della nutrizione intesa come incorporazione di nutrienti nell’organismo. In un’ottica biopsicosociale l’alimentazione è da intendere come una dimensione più complessa della semplice ingestione di cibo. Entrano infatti in gioco i comportamenti, le abitudini, le emozioni e le sensazioni che il cibo provoca.

La psicologia ha proprio il ruolo di studiare ed osservare i comportamenti messi in atto dall’individuo mentre assume le sostanze nutritive. Individua, inoltre, le regole, evidenzia i condizionamenti, identifica gli apprendimenti di abitudini errate e soprattutto facilita i processi di cambiamento e ripristino di abitudini corrette.

Il cibo, nella nostra cultura assume, oltre al significato di nutrimento “calorico”, un significato simbolico, diventando “nutrimento emotivo”. Attraverso il cibo costruiamo relazioni, stabiliamo la nostra identità e definiamo le regole di adesione ai principi etici e religiosi.

Alcuni motivi per cui è necessario l’intervento dello psicologo nel comportamento alimentare.

  • La psicologia studia i comportamenti

  • Il comportamento alimentare è un comportamento

  • Gli psicologi sanno che dietro ogni comportamento esistono una serie di fattori (pensieri, emozioni, idee etc) sui quali si deve intervenire per attuare un intervento correttivo.

  • Lo psicologo lavora sulle componenti emotive che intervengono nell’alimentazione (emotional eating)

  • Lo psicologo lavora sui pensieri e convinzioni disadattivi e sui comportamenti disfunzionali che ne derivano

  • Lo psicologo lavora sull’individuo e sulla sua unicità

  • Il ruolo dello psicologo è quello di facilitare il cambiamento, lavorando sul potenziamento dell’autostima e della motivazione

 

Riassumendo, lo psicologo, nella sua pratica, favorisce l’adozione e lo sviluppo di comportamenti più salutari, promuovendo nell’individuo la consapevolezza rispetto alle proprie abitudini alimentari, i propri pensieri e stati emotivi aiutandolo nel contempo a potenziare gli aspetti motivazionali. E’ dunque importante adottare un approccio multidisciplinare nel trattamento dei disordini alimentari in cui lo psicologo, in cooperazione con il nutrizionista e le altre figure professionali, dia il suo contributo in termini di sostegno alla dieta, attuazione di programmi di educazione alimentare e di consapevolezza alimentare (mindful eating), supporto in regimi dietetici restrittivi.


raspberry-2023404_1280

Perchè andare dallo psicologo?

Decidere di andare dallo psicologo non è mai una scelta facile poiché entrano in gioco diverse resistenze che la nostra mente crea per difendersi essenzialmente da quelli che sono i pregiudizi legati a questa figura professionale. Entrano infatti in gioco pensieri come “Lo psicologo è per i matti”, “Posso farcela da solo”, “Preferisco parlare con un amico piuttosto che con uno sconosciuto” etc. Quando si soffre per qualsiasi motivo questi pensieri sono del tutto normali ma occorre fare un ragionamento razionale.

Lo psicologo è un professionista sanitario esperto nella relazione di aiuto che si occupa di prevenzione,di favorire il benessere delle persone, di sostegno e consulenza in ambito psicologico, oltre che di diagnosi, abilitazione e riabilitazione. La convinzione che tale professionista si dedichi esclusivamente alla malattia mentale è del tutto errata poiché ci sono tante altre situazioni che possono provocare un abbassamento della qualità della vita e del benessere psicologico ma che non rappresentano disturbi mentali.

Alcuni eventi di vita che presuppongono dei cambiamenti, come per esempio un lutto, la perdita di un lavoro, un trasferimento, una gravidanza etc, possono creare scompenso e portare ad una condizione di disequilibrio in cui si verifica un abbassamento della qualità della vita. Le persone possono sentirsi disorientate, provare rabbia o dolore a seconda della situazione e non sempre è possibile “farcela da soli”. Chiedere aiuto è un atto di forza e di consapevolezza, piuttosto che segno di debolezza.

Lo psicologo è un professionista che mette in campo le proprie conoscenze e la propria formazione per aiutare le persone che stanno vivendo un momento particolare. Nel profondo rispetto, all’interno di una relazione di fiducia reciproca, si creano le basi per il cambiamento, grazie a due persone che cooperano e vanno nella stessa direzione, da una parte l’utente che porta la sua esperienza ed è senza dubbio l’esperto della sua vita, delle sue emozioni,pensieri e delle modalità per fronteggiare il problema, dall’altra lo psicologo che è esperto dei metodi e delle tecniche.

Come nella maggior parte delle situazioni, l’unione fa la forza.

 

consulting-1739639_1280